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POTERE ASSOLUTO
(ABSOLUTE POWER)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 26 maggio 1997
 
di Clint Eastwood, con C.E., Gene Hackman, Ed Harris, Judy Davis (Stati Uniti, 1997)
 
Tutto il cinema di Eastwood si costruisce sul tema dell'ambiguità. Su un personaggio che si assume la responsabilità di trasgredire all'ordine: perché considera che questo sia l'unico mezzo per venire a capo dell'ingiustizia, della perversione che governa quell'ordine. Sulla relatività del decidere: fra il bene ed il male, il giusto e l'ingiusto, l'innocente ed il perverso, il generoso ed il meschino.

Un grande cineasta lo si riconosce dalla qualità, dalla forza, dalla purezza di uno sguardo. E dalla possibilità di mantenere inalterata questa qualità nelle variazioni di genere, di tono o di destinazione commerciale che rappresenta la creazione di un nuovo film. Che Eastwood non sia soltanto quell'aitante pistolettaro al quale ci avevano abituati molti film ma, al contrario, uno dei grandi registi americani dell'epoca, sicuramente il più personale della vecchia guardia è stato dimostrato da film come UNFORGIVEN (GLI SPIETATI), UN MONDE PERFETTO, I PONTI DI MADISON COUNTY, per non citare che i più recenti.

Questa sua ultima fatica si apparenta a quel genere di thriller politico (tipo TUTTI GLI UOMINI DEL PRESIDENTE, o IL SOCIO) che gli americani prediligono da sempre: ma, una volta di più, commetteremmo un errore nel volerlo liquidare bonariamente come un piacevole divertissement commerciale. Dimenticando, una volta ancora, come non esistano soggetti piccoli o grandi: ma solo soggetti girati più o meno bene. Piuttosto: assai più sovente, storie pretese grandi girate da cane, che vicende minime illustrate alla grande...

POTERE ASSOLUTO è una di queste. Non che l'aneddoto (un ladro d'alto bordo è casualmente testimone di un delitto nel quale è implicato... il Presidente degli Stati Uniti, e diventa in seguito il bersaglio dei Sevizi di Sicurezza) sia proprio minimo: ma non certo inedito. A farlo lievitare, l'avrete compreso, è una volta ancora la leggerezza, la malinconia che volentieri si accosta all'ironia, la raffinatezza del sindaco di Carmel.

Il film è come spezzato in due momenti, antitetici ma non per questo avulsi o contraddittori. Il primo, lucido, tagliente, deliziosamente ironico alla maniera di un grande Hitchcock è la descrizione del furto di destrezza; seguito da quella sorta di "snuff movie" porno-violenta offerta dal solito, immenso Gene Hackman. Sequenza lunghissima ed affascinante: che Eastwood conduce in porto con disincantata maestria nei chiaroscuri ovattati delle notte, i riflessi ambigui delle gemme e dei preziosi che conducono agli specchi trasparenti di un voyeurismo trattenuto quanto rabbioso.

Poi, la parte più di genere: caccia al testimone, inchiesta della polizia, carabine dell'FBI. Ma, osservate, come il regista riesce ad avvolgerli in un mondo tutto suo. Come descrive, con crescente indignazione, gli intrighi del potere: tutti incentrati su un ballo paradossale alla Casa Bianca, che la bravissima Judy Davis, nei panni della diabolica segretaria del presidente, sembra orchestrare implacabilmente. O, ancora, come gli agguati siano costruiti su una meccanica ed una geografia dei luoghi che Eastwood non si è mai stancato di riproporre, di film in film: quella dei Kennedy e dei Luther King. Ideali romantici, più che politici, che l'autore ama contrapporre al mondo delle corruzione e della perversione.

Come inserisca deliziosamente il personaggio di una figlia cresciuta quasi senza conoscere quell'Arsenio Lupin, eternamente in fuga e trasformazione. Ed alimenti l'emozione dello spettatore: quando si tratta di coinvolgerla nei pericoli di una situazione vieppiù esplosiva.

Come, infine, faccia del ricupero di questa relazione padre-figlia un vero e proprio film nel film. Ed una splendida sequenza: quando la ragazza scopre l'abitazione del padre in sua assenza, le fotografie che lui aveva ripreso di lei nel corso di tutta una vita, quell'esistenza da angelo custode perennemente in fuga, di una protezione ansiosa fatta di pudiche osservazioni al teleobiettivo.

È il Clint degli ultimi dieci anni. Quello che ci parla (anche in un film cosiddetto di consumo) della malinconia, non certo della nostalgia del trascorrere del tempo, nell'immutabilità ambigua dei rapporti fra il bene ed il male.


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